Interviste

Martha J. fra Joni Mitchell e nonna Amelia

– Esce “Amelia”, l’omaggio alla leggenda canadese da parte della cantante milanese con il quartetto guidato da Francesco Chebat: una rilettura in chiave jazz del repertorio della “Signora del Canyon”
– «L’ascolto della sua musica mi ha veramente formato. Questo album chiude un cerchio del mio percorso musicale». «Ci siamo immaginati come sarebbero venuti fuori i brani se Joni li avesse suonati con un quartetto jazz»
– «Amelia è il nome anche di mia nonna paterna: anche lei era una donna con le palle», come l’aviatrice Earhart, alla quale è dedicata la popolare canzone della cantautrice 

Chissà come Joni Mitchell avrebbe riletto le sue canzoni del periodo da folksinger dopo la svolta jazz impressa dall’album Court and Spark. Lo immagina Martha J. con il quartetto guidato dal suo compagno di vita e d’arte Francesco Chebat (piano) con Giulio Corini (c/basso) e Maxx Furian (batteria). Nell’album Amelia, uscito oggi, la cantante milanese rivisita in chiave prettamente jazz il repertorio della cantautrice canadese spaziando da The Dawntreader, dall’album Song to a Seagull del 1968, fino ad A Chair in the Sky dall’album Mingus del 1979. 

«La prima cosa che ti colpisce di questa artista è la sua vena come folksinger, il suo modo così etereo di cantare», commenta Martha J.. «Andando avanti con gli ascolti, seguendo il suo percorso musicale, il suo messaggio è diventato sempre più complesso e trasversale rispetto a vari generi. Ha cominciato a chiamare musicisti di area jazzistica: Jaco Pastorius, Herbie Hancock, Peter Erskine, Wayne Shorter. Il suo linguaggio si è un po’ spostato rispetto a quello che era semplicemente l’ambito folk. Era questo che a noi interessava esplorare, e anche i pezzi che sono tratti dai suoi primi album, nell’arrangiarli ci siamo immaginati come sarebbero venuti fuori se lei li avesse suonati con i musicisti con cui ha collaborato negli anni successivi».

Amelia è un progetto in cui traspare tutto l’amore della protagonista verso la leggenda canadese, sciorinato in undici tracce che profumano e cospargono l’atmosfera di purissimo Jazz, talvolta brillante e dirompente, altre volte più rarefatto. Il bilanciamento fra la cantante e la band è di una eleganza viscerale, perfetta. La voce di Martha J. non soltanto è tramite di musica ma conosce l’arte delle pause e dei silenzi non meno risonanti dove si inoltrano, con un segno ogni volta differente, i musicisti che la accompagnano. 

Amelia è il compimento di un percorso cominciato sin da adolescente, appreso dalle musicassette che le registrava l’amico Tita Secchi Villa, oggi pittore bresciano un cui quadro fa da copertina al disco, approfondito sulla chitarra nella sua stanzetta, provato in due brani registrati in precedenti album: Let The Wind Carry Me in Harlem Nocturne del 2012 e Both Sides Now in Pas de Deux del 2014. «Joni Mitchell mi ha sempre accompagnata nella mia vita musicale», racconta la cantante milanese. «Ci sono stati tanti motori, ma è stata lei a far partire la mia passione per la musica. L’ascolto della sua musica mi ha veramente formato. Questo album chiude un cerchio del mio percorso musicale». 

Martha J., il cui vero nome è Stefania Martinelli, «ribattezzata Marta dagli amici per accorciare il cognome»

Un disco nel quale s’incrociano l’amore per la “Signora del Canyon” e la vita di Martha J., il cui vero nome è Stefania Martinelli, «ribattezzata Marta dagli amici per accorciare il cognome». Gli stessi protagonisti delle canzoni di Joni Mitchell, talvolta, vanno a confondersi con quelli incontrati da Martha J. nella sua vita. Fin dal titolo. Che è sì riferito alla canzone che la canadese dedicò ad Amelia Earhart, icona femminista, la prima donna che tentò la trasvolata in solitaria dell’Oceano Pacifico e che scomparve assieme al suo aereo durante l’impresa, ma soprattutto alla nonna paterna della cantante milanese.

«Ho scelto Amelia come titolo, oltre al fatto che insieme con Free Man in Paris è una delle canzoni più famose di Joni, perché Amelia è anche il nome di mia nonna», spiega. «E anche lei era una signora che aveva le palle. Era del 1908, tempi in cui era difficile per una donna farsi valere. Ha mandato al diavolo la famiglia, ed ha affrontato da sola con un figlio la vita. Ha preso decisioni che per noi adesso sono più facili, ma all’epoca era tutto più complicato. Una donna forte e indipendente. È stata una scelta di cuore mettere il nome di mia nonna sull’album».

Quale criterio ha seguito nella scelta delle canzoni?

«È stato un procedimento lungo, perché i brani sono tanti, tutti bellissimi. Quando sono partita con questo progetto, ho riascoltato con attenzione tutta la discografia. Ho cercato di concentrarmi su quelli meno visitati, meno rifatti, e che però avessero un collegamento con il nostro percorso musicale. Che potessero essere un po’ elaborati, che avessero una struttura jazz. Ad esempio, in Moon at the window, che abbiamo usato come primo singolo, la struttura è fatta proprio come un brano jazz». 

Martha J. con Francesco Chebat, compagno d’arte e di vita

Scelte, dunque, dettate da esigenze musicali. I testi non sono stati un discriminante.

«Abbiamo cercato di catturare la sostanza più terrena di Joni Mitchell, riflettendo questa ispirazione nei nostri arrangiamenti jazz contemporanei. Noi siamo sempre molto rispettosi nel fare le cover, non le stravolgiamo. Però neanche ci interessa fare la cover band. Ci interessa prendere il materiale musicale, melodia ed armonia, e cercare di farne una nostra versione, dare una nostra visione. Ci sono alcune canzoni che sono talmente iconiche, così conosciute nella loro versione originale, sulle quali è molto difficile mettere mano. Anche nell’album precedente, dedicato ai Beatles, non trovi YesterdayLet it be, canzoni che se le fai diverse le rovini, perché sono talmente belle, talmente riuscite, che non riesci a dire qualcosa di più interessante. Scegliendo brani minori, allora è più facile dire la tua, offrire una prospettiva nuova e appassionante».

Rossana Casale lo scorso anno ha pubblicato un album su Joni Mitchell, l’America la riscopre e la premia con un Grammy, c’è una riscoperta di questa artista, che è stata la prima a parlare al femminile nel mondo del rock e del jazz?

«È coinciso con il fatto che lei è stata malata, perché nel 2015 è stata colpita da un ictus, l’hanno ripresa per il rotto della cuffia e si pensava che non riuscisse più a riprendersi. Invece, questa donna ha sette vite come i gatti, ha una forza interiore pazzesca e adesso si sta godendo la sua rinascita, la sua celebrità ritrovata, anche il mercato discografico si sta accorgendo di lei. E la stanno celebrando quando ancora è in vita. Meno male, perché di solito si accorgono quando uno tira il calzino. Questo progetto è un omaggio realizzato in occasione degli ottant’anni di questa straordinaria artista che ha influenzato generazioni di cantanti e musicisti».

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