Zoom

Le voci di Madre Terra

Viaggio nell’universo sonoro del nostro pianeta, nelle sfumature dei suoi respiri, nei sussulti e nelle vibrazioni della crosta terrestre, ma è anche un monito potente alle responsabilità, agli errori e alle prevaricazioni dell’uomo sulla natura. Canzoni che navigano mari in tempesta, canti dell’entroterra, canti transoceanici, canti dei deserti e delle coste

Ana Lua Caiano (Portogallo)

Attinge dalle tradizioni tramandante oralmente nelle campagne, combinandole con l’elettronica e trasferendole nell’ambientazione surreale dei suoi video

Il suo viaggio musicale è interessante. Dalle lezioni di pianoforte classico da bambina a quattro anni di scuola di jazz, nessuno dei due campi sembrava offrirle la libertà musicale che desiderava. La svolta arriva durante la pandemia quando comincia a sperimentare a casa in isolamento, fondendo l’elettronica con la musica tradizionale portoghese. «Quando parlo di musica tradizionale portoghese, non sto parlando di Fado, sto parlando di un tipo di sonorità cantata in campagna usando canoni, armonie e ritornello. È stato per lo più trasmesso per via orale», tiene a puntualizzare.

Formatasi in questo compito creativo attraverso due EP, Ana Lua è arrivata alla realizzazione di un grande album con la passione di una principiante e l’esperienza di chi ha le idee ben chiare. Canzoni come O bicho anda por aí e Cansada non nascondono di essere state scritte durante il lockdown, e brani come Os meus sapatos não tocam nos teusmostrano un vigore elettrizzante. Pulsazioni, tessiture e perfino quel tessuto elettronico fatto di errori (o glitch) si combinano con grande talento con canoni, armonie e ritornelli di musiche che provengono, in larga parte, dalla tradizione orale.

La musica di Ana Lua Caiano è senza paura e certamente non appartiene a nessun genere. Le sue idee sono liberatorie nel concetto, e questo si riflette nei suoi video surreali, che svolgono un ruolo essenziale nella presentazione della sua musica. 

Ëda Díaz (franco-colombiana)

Contrabbassista e cantante, Ëda Díaz ripercorre l’asse Parigi-Medellín in Suave bruta, il suo album di debutto

Nata da madre francese e padre colombiano, Ëda Díaz si muove con disinvoltura tra due continenti, tra due mondi di cui vuole sperimentare le vibrazioni musicali. Contrabbassista e cantante, Díaz ripercorre l’asse Parigi-Medellín in Suave bruta, il suo album di debutto. È un lavoro che nasce da quella che potremmo definire l’armonia dello squilibrio. Un’instabilità nucleare, che rilascia particelle di radiazioni intense. 

Dieci anni di pianoforte classico hanno dato a questa artista una prospettiva su ciò che non vuole fare. Chitarre, tastiere, sintetizzatori, clavicembali, batterie, assi di legno, campioni di voci di animali (dagli uccelli alle mosche), rumori quotidiani, archivi documentari. Campioni di tamburi batá, clarinetto, violini, fisarmoniche, pianoforti. Tutto ruota attorno all’universo complesso della cantante. Dalla nonna ha imparato il folklore latinoamericano (vallenato, bullerengue, valzer ecuadoriano, bolero, danzón…). Dal padre, la passione per la salsa. Il resto lo ha appreso dal rock progressivo degli anni Settanta e anche da James Blake. Non esiste manuale di istruzioni o guida all’ascolto che riesca a individuare i collegamenti di Suave bruta con altri spiriti. Come quelli di Rafael Escalona, re del vallenato (Tiemblas), Carlos Gardel (Nenita), Julio Jaramillo (Lo Dudo‘) e persino le Goadec Sisters entrano nella costruzione (o decostruzione?) sonora dell’album.

Aziza Brahim (sahrawi)

Diaspora personale, viaggi, memoria, resistenza politica e lotta, mitologia e amore per sua nonna, morta nel 2020, compongono la storia di Aziza Brahim 

La radio è stata una fedele compagna per Aziza Brahim, sahrawi nata e cresciuta nei campi profughi dell’Algeria. Da qui Mawja (onda, in arabo), il titolo del suo nuovo album, che fa riferimento anche alle onde di sabbia del deserto, uscito cinque anni dopo Sahari, dove ha ritratto il suo popolo con arie sub-sahariane, spunti elettronici e ritmi reggae. Mawja è una proposta meno rischiosa, ma non per questo meno bella. La diaspora personale, il viaggio, la memoria, la resistenza politica e la lotta, la mitologia e l’amore per sua nonna, morta nel 2020, mettono insieme la storia di un album segnato dal blues del deserto.

A poco a poco il disco avanza verso le calde acque del Mediterraneo. In quest’onda senza confini si sentono percussioni iberiche, i tres di flamenco cubano di Raúl Rodríguez (Haiyu ya zuwar), gli effluvi della musica andalusa e gli aromi del Medio Oriente. La cantante, che vive in Spagna, anche se canta nel dialetto hasanía, parla in spagnolo in parte della canzone Metal, madera: «Hai un palazzo in ogni territorio / e hai tante cose / ed è tutto transitorio». Imprevedibile e mutevole, come il mare.

Macadi Nahhas (Giordania)

Soprannominata la “Diva di Petra” e la “madrina del folclore arabo”, si definisce un’artista eclettica, senza compromessi, dal fiero repertorio “panarabo”

Macadi Nahhas, soprannominata la “Diva di Petra” e la “madrina del folclore arabo”, è un’artista giordana nata nel 1977 ad Amman, ma originaria di Madaba. È figlia di Salem al-Nahhas (a cui dedicherà il suo disco Ilā Sālim), politico e scrittore giordano che la educherà in modo esigente a una cultura raffinata, imprimendole una forma mentis che marcherà profondamente la sua carriera, davvero “indipendente” e “alternativa” nelle sue scelte di qualità senza compromessi.

Si è formata musicalmente a Beirut, raccogliendo la già importante eredità di dive come Fayrouz e Julia Boutros, spingendosi però un po’ più in là: in linea con questa formazione “panaraba”, Macadi dedicherà i suoi primi due album a rivivificare il patrimonio arabo tradizionale della regione.

La cantante giordana si definisce un’artista eclettica, senza compromessi, dal fiero repertorio “panarabo”, e crede fortemente nei “classici” e nella “tradizione”, ossia in quelle canzoni senza tempo che, anche se da lei presentate in chiave più moderna, parlano a tutti poiché scritte per tutti. Ma Makadi ricorda spesso di esser figlia di un politico, e lei stessa si infuoca quando discute di politica, affermando: «L’arte non può essere separata dalla politica […] negli ultimi vent’anni abbiamo assistito a un degrado della scena artistica e culturale araba, risultato del degrado e della pochezza della situazione politica».

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *