Storia

Mario Incudine fra “erranza” e “restanza”

– L’artista ennese, ospite del Lithos Festival, ha presentato il suo nuovo lavoro “Il senso della misura”, «album di rivalutazione dei sentimenti»
– «In questo disco ho voluto rimettere al centro le mie priorità: torno alla canzone d’autore e alla costruzione in maniera artigianale»
– Il debutto sul palco della figlia Iole e uno straordinario “amarcord” con Carlo Muratori, direttore artistico della rassegna di Ferla

A Lithos, Il festival ideato da Carlo Muratori che si volge a Ferla all’insegna della musica, dell’arte e della tradizione siciliana, Mario Incudine fece il suo primo concerto poco dopo aver pubblicato il suo disco d’esordio Anime Migranti, un album di “erranza”. Sempre nella cittadina iblea alle porte della necropoli di Pantalica, l’artista ennese venne nel 2012 per presentare quello che sarebbe presto diventato il suo disco di maggior successo, Italia Talìa, un album di denuncia. E, quindi, il cantautore siciliano non poteva non passare da Ferla, dove Lithos lo scorso fine settimana ha festeggiato la XXIV edizione sotto il titolo “Non Plus Ultra”, in occasione dell’uscita del nuovo lavoro, Il senso della misura, l’album di sentimenti.

Il ritorno alla canzone dopo 12 anni

Dodici anni per un disco? Non ti sembrano un po’ troppi?

«Questo lavoro arriva dopo un periodo in cui mi sono dedicato molto al teatro e alla televisione, prendendomi tutto il tempo necessario per creare e plasmare queste canzoni». 

È un lavoro che sembra rappresentare una rottura con Italia Talìa. Gran parte delle canzoni è in lingua italiana e la Sicilia è un’eco sonora.

«Dal punto di vista del suono c’è una continuità con il precedente, in effetti l’italiano qui è più preminente. Più che una rottura, la vedo come una evoluzione. Se torniamo ai nostri riferimenti, che sono Battiato e Kaballà, loro sono stati i primi a usare l’italiano nello stile del Verga letterario, come avrebbe detto Calvino: italiani di Sicilia. Ho fatto questo ragionamento: “Ho sempre cantato in siciliano, perché non provare a spingermi un po’ oltre e, quindi, a usare l’italiano come lingua poetica e metterci il siciliano come se fosse la lingua ‘special’”. Abbiamo voluto fare un disco che parlava italiano ma che suonasse siciliano. Volevo che fosse comprensibile quanto più possibile, ma che non tradisse la matrice, che è quella nostra. Quindi, anche la costruzione sintattica o quella poetica riprende la vecchia ottava rima siciliana pur essendo in italiano. Il processo creativo dal punto di vista musicale segue la scia di Italia Talìa: ci sono sempre quelle ibridazioni mediterranee, arabe, c’è di nuovo Faisal Taher alla voce in Parlami d’amuri, c’è l’ingresso dei musicisti portoghesi con i quali ho suonato al Festival Sete Sóis Sete Luas, c’è la cantante portoghese Joana Guinè in Se questo amore. Mi piaceva che il disco potesse avere tante lingue, tanti suoni: una lingua multisonora, l’italiano, il siciliano, l’arabo, il portoghese, il francese della fisarmonica del Maestro Antonio Vasta».

Canzone d’autore e tradizioni popolari

L’elemento portante, tuttavia, mi sembra la canzone d’autore rispetto alle tradizioni popolari. 

«È vero. Un elemento che già c’era in Italia Talìa. Qui diventa preminente e più esplicito, nel senso che ho voluto fare il cantautore vecchia maniera. Anche con l’utilizzo delle orchestre (quella della Magna Grecia diretta da Valter Sivilotti, ndr), tutto suonato dal vivo, tutto scritto, arrangiato in maniera artigianale. Ecco, volevo raccontare l’“artigianato della canzone”, le composizioni che nascevano voce e chitarra, voce e pianoforte, e poi piano piano venivano vestite con l’orchestra, con strumenti popolari che dialogano con quelli moderni, con l’elettronica. Ad esempio, nel brano I giorni dell’abbandono c’è l’assolo di Antonio Vasta con un arpeggiatore e un mandolino». 

Perché il titolo Il senso della misura?

«Riguarda la sfera personale. Dopo tutti questi anni, dopo tante cose fatte, ho ridato senso e misura ad altre cose, fra cui i sentimenti. Superata la boa dei 40 anni si ridà peso e misura a tutto, ai rapporti umani, ai sentimenti, all’amore, al tempo, alla costruzione di qualcosa. Mentre con i furori giovanili non ti rendi conto che cammini, cammini, marci e magari ti perdi il piacere di vedere un tramonto o di parlare con un amico perché sei freneticamente preso dall’eccitazione della giovinezza, a un certo punto della vita di ciascuno di noi si scoprono quali sono le cose che contano di più. Volevo rimettere al centro le mie priorità. Anche il fatto di scrivere una canzone è una priorità. Mentre dirigevo teatri, facevo direzioni artistiche, scrivevo per il cinema, facevo il teatro, mi sono fermato per scrivere: la canzone è diventata per me un “buen retiro” dove per un attimo potevo liberarmi di tutto il resto e dedicarmi a quei tre minuti, a quel racconto, a quella parte intima che volevo che venisse fuori. Ridare peso, quindi, alla forma canzone che in questi dodici anni avevo abbandonato. Riprendere la canzone e con essa raccontare la priorità dei sentimenti».

Mario Incudine sul palco del Lithos Festival a Ferla. Con lui sul palco, il Maestro Antonio Vasta alla fisarmonica, Manfredi Tuminello alla chitarra, Pino Ricosta al basso e Francesco Bongiorno alla batteria
Il duetto con la figlia Iole nel brano “L’alba il giorno e la notte”
L’amarcord fra l’allievo e il maestro: Mario Incudine e Carlo Muratori

Lo show al Lithos Festival

La priorità dei sentimenti ha anche il volto, emozionatissimo, di Iole Incudine, che papà Mario fa debuttare nella fiabesca L’alba il giorno e la notte e che porta con sé sul palco di Lithos. Un tenero quadretto di famiglia, come quello con Carlo Muratori, direttore artistico della rassegna, con il quale Incudine esordì ai tempi dei Cilliri. E all’epoca della Compagnia siciliana di canto popolare le due “star” della canzone d’autore isolana tornano con Arbiru carricatu ri trufei, due ottave della raccolta Avolio canti popolari di Noto che l’artista siracusano musicò nel 1977. Per poi rivangare la collaborazione a quattro mani nel brano Quasi luna piena. Momenti sottolineati da scroscianti applausi e standing ovation dal pubblico che assiepava sabato sera la Scalinata dei Cappuccini di Ferla.

I sentimenti assumono un peso diverso, più importante, come indica anche la copertina dell’album realizzata da Rosso Cinabro, un laboratorio d’arte di Ragusa: su una bilancia antica la piuma, ovvero l’anima, il sentimento, pesa di più rispetto al piombo.

Mario e Iole Incudine

“Cu nesci, arrinesci”?

«Il senso della misura è un album di sentimenti, anzi di rivalutazione dei sentimenti. Per questo il senso della misura. Un altro testo molto poetico è In un metro di terra bagnata, quando canto: “Ho consacrato i miei occhi al tuo sguardo / il mio abbraccio al tuo freddo / la mia lingua il tuo verbo”». 

Quale ruolo ha avuto Biagio Antonacci in questa tua evoluzione?

«Un ruolo l’ha sicuramente avuto. Da quando abbiamo fatto Mio fratello, siamo rimasti perennemente in contatto. La nostra amicizia e il nostro sodalizio si sono alimentati ed è venuto fuori Tienimi Terra. Ma questa evoluzione parte da lui ma anche da tutta una serie di ascolti che io avevo fatto prima e che non avevo mai messo a frutto. Sono cresciuto ascoltando i grandi cantautori italiani. La grande lezione di autori come Piero Ciampi, Fabrizio De André, Bruno Lauzi, Gino Paoli, la scuola genovese, quella romana, e poi Lucio Dalla, Modugno in primis, sono stati fondamentali per me. In questo disco c’è molto di questi ascolti».

La canzone con Antonacci, oltre a mescolare dialetto e italiano, è quella con un contenuto sociale.

«Io gli parlavo della mia idea di sovvertire quell’adagio che recita: “Cu nesci, arrinesci” (“Chi esce, riesce”, ndr). Ho sempre parlato nei dischi precedenti – Anime MigrantiItalia Talìa – dell’erranza, dell’andare, adesso volevo affrontare il tema della “restanza”, di questo concetto che ora sta venendo fuori. Ho letto il bellissimo libro di Vito Teti, che si intitola appunto La restanza e che ti spiega perché restare è importante: non è da sfigati rimanere, è da coraggiosi. È più difficile andare piuttosto che restare. Ma se rimani e vivi questa libertà di poter restare nel luogo dove sei nato allora è una festa. “Festa nazionale dovrebbe essere quando un uomo può rimanere dov’è”, ci siamo detti con Biagio. Tant’è che è il brano all’inizio avrebbe dovuto intitolarsi Festa nazionale, ma poi alla terza stesura siamo arrivato al testo che c’è nel disco e racconta il dramma di chi deve partire ma anche la gioia di chi riesce a restare. La vera vittoria è quando si ha il coraggio di restare, sono chiacchiere quelle di “cu nesci, arrinesci”».

In questo contesto come s’inserisce Amara Terra mia, unico non inedito del disco?

«È l’altra faccia di Tienimi terra. Lì si parla del partire e del restare, Amara Terra mia è il canto di chi va: “Addio, addio amore”. Il fatto di tradurlo in siciliano stata un’idea di Federico Quaranta, giornalista, conduttore televisivo. Ero ospite di una sua trasmissione a Rai1 e lui mi propose: “Perché non traduciano Amara Terra mia in siciliano? Non l’ha fatto nessuno, tu hai già tradotto Bocca di Rosa in dialetto”. E poi, in un pomeriggio, l’ho tradotta e, nella registrazione, c’è lui che alla fine la recita in italiano. L’ho voluta mettere a chiusura del disco proprio per fare vedere questa doppia focale: la restanza e l’erranza. Amara Terra mia in siciliano e invece Chiamami Terra che è in italiano e ribalta il concetto della prima».

Mario Incudine canta fra il pubblico che assiepava sabato sera la Scalinata dei Cappuccini di Ferla

Perché un brano dedicato a Roma (scritto con Toni Canto) e non a Enna, tra l’altro con quelle citazioni del Rugantino: “Roma ora fa la stupida” e “le stelle più brillarelle”?

«Mi piaceva scrivere una canzone che avesse per titolo il nome di una città. Roma è Roma, è la città eterna, quando dici Roma indichi un mondo. Come quando dici Napoli o Parigi. Roma nella canzone è il paradigma di una città che con la sua bellezza poteva custodire un momento che abbiamo provato tutti: quello di svegliarsi con la donna che ami accanto. Chi è il poeta, chi è il cantautore, se non colui che riesce a esprimente i sentimenti che altri non riescono a raccontare. Questa è una storia mia, ma può essere universale. Abbiamo avuto un riscontro immediato, quando una nostra fan sessantenne di Palermo, dopo aver ascoltato Roma, mi ha mandato un messaggio vocale dicendomi. “Mario, tu hai raccontato la mia storia, perché io e Turi la prima notte l’abbiamo vissuta a Roma”. La citazione di Rugantino mi serviva per dare forza al racconto e alla poesia».

Accompagnato dal fido scudiero Maestro Antonio Vasta, da Manfredi Tuminello alla chitarra, Pino Ricosta al basso e Francesco Bongiorno alla batteria, Mario Incudine sarà impegnato a promuovere in giro per l’Italia l’album Il senso della misura, del quale in dicembre dovrebbe uscire una versione in vinile sulle ali del successo che il disco sta riscontrando. «Poi partirà il tour di Parlami d’amore, lo spettacolo di Costanza DiQuattro con la regia di Pino Strabioli. Riprendo la tournée in teatro di in Un sogno a Istanbul con Maddalena Crippa tratto dal libro La Cotogna di Istanbul di Paolo Rumiz, dove sono in scena come attore e come musicista». 

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