Storia

Enrico Rava: la mia band senza paura

– Il celebre trombettista a 84 anni presenta il suo progetto – disco e tour – con un quintetto composto da una nuova generazione di musicisti, che mette insieme energie giovani e creative, insieme all’enorme esperienza del band leader. «Con questo gruppo mi sento come su un’isola ideale»
– «Oggi sono tanti i giovani che si avvicinano al jazz: la qualità e la quantità è altissima. Ma non serve soltanto suonare bene, bisogna avere carisma, idee, fantasia e molta fortuna». «Ascoltando i jazzisti neroamericani in voga oggi, se avessi 15/16 anni farei sicuramente il rapper»

A 84 anni Enrico Rava continua a soffiare nella sua tromba e ad andare in tour. «Ma non è un tour» tiene però a precisare. «Io cerco di evitarle le tournée. Sono una serie di eventi speciali con un calendario che mi consente di riposare per alcuni giorni a casa mia». Ovvero, il 9 luglio alla Casa del Jazz di Roma, il 14 luglio a Pisa Jazz Rebirth, il 19 luglio a Perugia per Umbria Jazz, l’1 agosto a Sogliano (Lecce) per il Locomotive Jazz Festival e il 7 settembre all’Open Jazz di Ivrea. In questi concerti presenterà il suo nuovo progetto The Fearless Five, realizzato con un quintetto “senza paura”, composto da una nuova generazione di musicisti, che mette insieme energie giovani e creative, insieme all’enorme esperienza del band leader. 

Enrico Rava è l’ultimo dei mohicani, come si è autodefinito, un musicista che si ostina «a suonare strumenti antichi, che altri hanno sostituito con bip, loop, macchinette diaboliche che riproducono il suono di una tromba, di un sassofono» si lamenta. «Oggi tutto è di pessima qualità. Ascoltare musica su Spotify non è la stessa cosa di comprare un disco in negozio e poi andarlo ad ascoltare in un impianto stereo. Spotify è musica “usa e getta”. La tecnologia ci ha portati a non avere negozi di dischi, di libri, lettori cd. Oggi perfino nelle auto trovi la chiavetta dove devi scaricare la musica per ascoltarla. E questo è un peggioramento nell’ascolto».

Enrico Rava (foto Riccardo Musacchio)

L’inizio di una grande passione

L’amore per il jazz sbocciò quando Rava aveva 7 anni, «più o meno». «Ascoltavo i dischi di mio fratello, che era più vecchio di me» ricorda. «Possedeva una cinquantina di 78 giri, perché ancora il 33 giri non esisteva. Ogni facciata durava tre minuti e mezzo. C’erano dischi di trombettisti come Louis Armstrong, Bix Beiderbecke, Dizzy Gillespie. Fu un amore a primo ascolto. E a 12/13 anni, quando arrivò la paghetta, cominciai a comprarmi i primi dischi. Il primo? Non lo dimenticherò mai, era di King Oliver, che fu un maestro di Armstrong». 

Il jazz per quel bambino nato all’alba del secondo conflitto mondiale rappresentò anche qualcos’altro. «Il cibo. Prima, con la guerra, c’era la fame» continua Rava. «Il jazz era il pane buono, fresco, la cioccolata, i vetri alle finestre. Segnò l’inizio del benessere, che poi è arrivato con il cinema e la letteratura americani, prima vietatissimi. Insomma, m’innamorai di questa musica per via di tutto ciò: era un pacchettone di mille cose belle, fantastiche».

Un amore folle, irresistibile, totale. «A causa del quale a scuola andavo malissimo» sorride al telefono dalla sua casa ligure nelle Cinque Terre. «Invece di studiare, con alcuni miei compagni di classe, anche loro appassionati di questa musica, ci scambiavamo dischi, suonavamo. Ma grazie al jazz ho potuto fare una bella vita. È un privilegio essere pagati per divertirsi, perché suonare per me è un gioco. Quando sto sul palco e suono per me è un piacere. Il jazz mi ha fatto girare e conoscere il mondo».

Enrico Rava (foto Riccardo Musacchio)
Gli incontri più importanti

Gli incontri più importantiE gli ha fatto incontrare tante persone. Perché, come ha titolato una sua autobiografia, il jazz è una musica che nasce da incontri. «Sin dalle sue origini, a New Orleans, alla fine dell’Ottocento, quando ancora non esisteva l’apartheid. Africa e l’opera italiana, inglesi, francesi, creoli, si incontrarono gettando le basi di quella musica che sarebbe stata definita jazz una decina di anni dopo. E gli incontri continuarono: i ritmi cubani, la contemporanea, il pop, il rock». 

Per Rava l’incontro più importante, dal punto di vista umano e musicale, fu quello con Gato Barbieri. «Io ero un dilettante, lavoravo in una azienda, stavo malissimo. Gato mi ha dato fiducia, mi ha spinto a lavorare nella musica, fino a chiamarmi per suonare insieme. Forse anche senza Gato avrei fatto il musicista jazz, ma avrei aspettato molto più tempo e non so se la storia avrebbe avuto lo stesso sviluppo».

E poi Steve Lacy, un’altra persona importante nella crescita del trombettista. «Mi portò con lui a New York, mi fece conoscere Roswell Rudd, Carla Bley, Cecil Taylor. Eravamo alla fine degli anni Sessanta, io ero uno dei pochissimi europei a suonare jazz a New York. Da allora fu un crescendo, al ritorno in Italia il lavoro fioccava da ogni parte».

Incontri non solo nel jazz, ma anche nel cinema, nell’arte, nel fumetto, nella letteratura, nel pop. «Che nascono sempre dal fatto di suonare jazz. Fui chiamato a scrivere le musiche per il film Oggetti smarriti di Giuseppe Bertolucci perché gli fui indicato dal fratello Bernardo che amava il jazz. Con Michelangelo Pistoletto nacque una collaborazione a tutto campo dopo che vide un mio concerto alla Scala. Conobbi Altan prima che fosse Altan, quando andava in spedizione nella giungla brasiliana. Nel ’96 incisi Rava Noir, e Altan disegnò una stupenda storia con me protagonista. Nel caso del progetto su Michael Jackson e dell’opera, è perché mia moglie Lidia ha 22 anni meno di me. A me dell’opera importava poco, e Michael lo ricordavo bambino nei Jackson Five. Ma Lidia mi ha trasmesso certe sue passioni, e così mi sono venuti quei trip…».

Fino all’incontro con il compianto Andrea Camilleri. «Fui io, questa volta, a contattarlo» ricorda Rava. «Mi proposero un docu-film su di me. Non mi andava, perché ne avevo fatti altri. A me interessava una fiction, non un docu-film. Ma ci voleva uno che scrivesse la scenografia. L’unico che poteva scriverla era Camilleri». Da appassionato di letteratura e da divoratore di libri, Rava aveva letto tutte le opere dello scrittore agrigentino, «non solo quelle con il commissario Montalbano» tiene a sottolineare. «Gli telefonai e lui fu molto simpatico. Fui sorpreso dal fatto che mi conoscesse. Scoprii che era un appassionato di jazz.  Mi invitò a casa sua e cominciò a scrivere la sceneggiatura di questa fiction. Che non è mai stata realizzata perché costava troppo: alcune scene richiedevano il trasferimento del set a New Orleans e a New York. Diventò però un piccolo spettacolo teatrale che ho portato in giro per il Paese».

Enrico Rava e The Fearless Five in concerto (foto Riccardo Musacchio)

I giovani e i suoi nuovi compagni di viaggio

I suoi nuovi compagni di viaggio non hanno gli stessi altisonanti nomi. Sono Matteo Paggi al trombone (l’ultima sorprendente scoperta di Rava, scovato ai seminari di Siena Jazz), Francesco Ponticelli, contrabbassista dalla notevole spinta propulsiva, la straordinaria batterista e cantante Evita Polidoro e l’indispensabile chitarrista Francesco Diodati, già al fianco di Rava da una decina di anni e vero e proprio baricentro di questo quintetto di jazzisti impavidi e “senza paura”.

Con questo gruppo mi sento come su un’isola ideale, dove ognuno dà e ognuno ricevere quello di cui ha bisogno», commenta il musicista triestino. C’è grandissima libertà ma rispetto reciproco, ognuno è in ascolto dell’altro, come in una democrazia perfetta che solo il jazz può rappresentare. I musicisti hanno tutti questa grande capacità, quasi telepatica, di ascoltare e interagire agli input. Ma ci vuole anche coraggio per stare su quest’isola. Circondata a volte da un mare minaccioso, a volte meno, visti i tempi così difficili che stiamo vivendo, rimane pur sempre la mia isola ideale dove amo vivere e suonare».

Maestro e talent scout. Tanti sono i discepoli di Enrico Rava sparsi per l’Italia: Massimo Urbani, Paolo Fresu, Stefano Bollani, Gianluca Petrella, Giovanni Guidi, Francesco Diodati, tra gli altri. «C’è un grande ricambio, è vero» spiega. «Certo chiamarlo ricambio di idee mi sembra una affermazione azzardata. Solo l’elettronica ha smosso qualcosa. Il livello tecnico e teorico è altissimo, certo, ma le idee sono rimasticamenti di cose già sentite. L’ultima grande innovazione di linguaggio è stata quella di Coleman nel 1959; da lì in poi, si ricicla. Ascoltando i jazzisti neroamericani in voga oggi, se avessi 15/16 anni farei sicuramente il rapper».

La copertina dell’album. I Fearless Five sono: Matteo Paggi al trombone Francesco Ponticelli al contrabbassista, la batterista e cantante Evita Polidoro e il chitarrista Francesco Diodati

Rava è sorpreso dalla valanga di giovani che si dedicano al jazz. «Penso di non sbagliare se dico che sono migliaia» si meraviglia. «Ogni anno tengo i seminari di Siena e ogni anno escono fuori quattro musicisti strepitosi. La qualità e la quantità è altissima. Mai l’avrei immaginato all’inizio della mia carriera. Quando ho iniziato a suonare, a fine anni Cinquanta, da noi non c’erano jazzisti tout court. Esistevano, casomai, musicisti bravissimi che lavoravano nelle orchestre Rai e poi si ritagliavano a fatica un posto fuori; io invece sono stato uno dei primi a dedicarmi esclusivamente all’attività solista insieme a pochi altri — Nunzio Rotondo, Franco D’Andrea — lottando contro le perplessità di tutti. A partire dai genitori, che mi vedevano come matto, neanche mi fossi messo in testa di fare l’astronauta. Allora eravamo davvero pochi, oggi sono migliaia. Al primo anno del festival che Fresu organizza all’Aquila si sono presentati seicento musicisti, altrettanti, e tutti diversi, l’anno successivo. A volte mi chiedo cosa faranno da grandi. Sì, c’è un movimento, ci sono concertini, festivalini. Sta di fatto, però, che solo per pochi di loro ci sarà un futuro semplice. Non serve soltanto suonare bene, bisogna avere carisma, idee, fantasia e molta fortuna».

Grande fucina di talenti jazz resta la Sicilia. Sin dai tempi eroici di Nick La Rocca. «Non solo: chi ricorda George Wallington, un pianista che partecipò alla rivoluzione bebop? Anche lui era siciliano, il suo nome era Giacinto Figlia» sbotta Rava. «Penso che voi siciliani il jazz l’abbiate nel Dna. Il livello di musicisti che vengono dalla Sicilia è incredibile: i fratelli gemelli Matteo e Giovanni Cutello di Chiaramonte Gulfi, il pianista Dino Rubino di Biancavilla, il catanese Giuseppe Asero è un formidabile sassofonista. È siciliano anche il trombettista Giovanni Falzone».

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