Interviste

Dario Muci: il Salento fra migranti e Xilella

– L’Alan Lomax pugliese debutta come cantastorie con “Talassa” e racconta la sua terra in un album moderno fra poesia e canzone d’autore
– «Per 25 anni mi sono dedicato alla ricerca del canto tradizionale, adesso ho voluto scrivere un disco completamente nuovo che parlasse del Salento di oggi»
 – È un canto di denuncia e speranza: storie vere, d’attualità e del passato, di mare e di terra, dalla lotta al caporalato alla difesa dell’ambiente
–  Raphael Gualazzi, Nabil Salameh dei Radiodervish ed Enza Pagliara fra gli ospiti. Dal blues alla world music, dal reggae fino ai cantautori

Talassa – dal greco antico Θάλασσα, Thalassa – è il mare. È lo Ionio sul quale si specchia Santa Maria al Bagno, marina di Nardò (Le), una comunità di pescatori nel Salento, dove Dario Muci è nato e cresciuto. Talassa rappresenta anche la nostra interiorità, immensamente grande e, dunque, a volte, ancora da scoprire. Nella visione di Muci, talassa è semplicemente l’amore.

Amore per la sua terra. Che fino a poco tempo fa l’artista salentino ha indirizzato nella ricerca, nello studio e nella rielaborazione delle fonti, delle tradizioni. Adesso, smette i panni dell’Alan Lomax salentino per indossare quelli del cantastorie moderno, per realizzare il suo primo album di inediti, Talassa appunto: cinque brani scritti di suo pugno e tre arrangiati su testi di poeti. È la fotografia, realistica e drammatica, della sua terra com’è oggi e nella quale si possono specchiare molte regioni del Meridione.

Dario Muci

«Parlo di immigrazione, di caporalato, di difesa dell’ambiente proprio come un vero e proprio cantastorie», spiega. «Questo perché provengo da un mood, un background di musica tradizionale. Io per venticinque anni ho sempre cantato e riproposto musica tradizionale e in questa ci stanno anche le ballate dei cantastorie: Otello Profazio, Enzo Del Re, Matteo Salvatore. Che sono stati fonti di ispirazione nel comporre questi pezzi. Mi sono ispirato al passato per raccontare l’attualità. Questo disco è nato da una esigenza interiore. Io per anni mi sono dedicato alla ricerca del canto tradizionale alla fonte e da otto anni volevo scrivere un album completamente nuovo che parlasse del Salento di oggi, riferendomi anche alle storie e alle vicende ed a tutti quei fatti accaduti realmente nelle campagne salentine. Il soggetto è sempre il Salento, ma non è la terra di una volta con le campagne ricche di prodotti e di lavoratori e lavoratrici, è una terra completamente diversa con gli alberi di ulivo secchi, dove le persone che ci lavorano provengono da altre nazioni, vengono da noi attraverso il mare: braccianti regolari e irregolari che sono sfruttati dalla grande filiera dell’agricoltura del Meridione, come sono stati sfruttati i nostri nonni, i nostri avi. Questo per dire che la storia non cambia».

Uno di questi brani è Mohammed, che fa riferimento a una storia accaduta il 20 luglio del 2015, quando il quarantasettenne Abdullah Mohammed morì mentre raccoglieva pomodori sotto il sole cocente in località Pittuini, nelle campagne di Nardò, ma potrebbe anche riferirsi a quella più recente di Singh Satnam, il bracciante indiano lasciato morire in un podere di Latina dopo aver perso un braccio in un incidente sul lavoro. Un brano arrangiato e interpretato al pianoforte da Raphael Gualazzi e nel quale si avverte il richiamo di una popolare canzone portata al successo da Domenico Modugno, Amara terra mia.

«Sinceramente sì, anche se non è nata con quella traccia di riferimento che amo moltissimo. Un brano che appartiene alla tradizione abruzzese e che invece tutti collegano a Modugno. Posso aver preso spunto da quel ritornello: quella terra amala ancora. La canzone l’ho scritta il giorno stesso della notizia, poi sono stato impegnato in dieci produzioni discografiche ed è rimasto nel cassetto fino ad oggi. È ancora un tema di grande attualità. Proprio per questo motivo, ho voluto coinvolgere due persone molto care che sono Enza Pagliara, che canta con me il ritornello, e mi sono affidato nelle mani di Raphael Gualazzi, questo “big” della canzone italiana, perché con loro ho condiviso la stessa sensibilità su queste tematiche».

Il disco è un melting pot di sensibilità e suoni, anche grazie ad una serie di collaborazioni e featuring. Oltre a Raphael Gualazzi, c’è Nabil Salameh dei Radiodervish che in Ommmuammare traduce in arabo ed interpreta il testo di Muci (ispirato dal libro “Frontiera” di Alessandro Leogrande), una preghiera ad ogni Dio del mare, ma anche un’accusa alla politica in merito alla legislazione sull’immigrazione e ai tanti, troppi, morti sulle coste e tra le onde. E ancora di immigrazione e di lavoro nei campi si parla in Sciurnatieri, ovvero i braccianti a giornata, quelli che un tempo si mettevano ai bordi della strada per aspettare un ingaggio. Oggi “..passa lu patrunu a mmienzu fore, n’euro e quaranta paga lu quintale […] E quantu mare fannu pe vinire…”, canta Dario Muci fra contrappunti di fiati. «Questi lavoratori della terra vengono impegnati nella raccolta dei pomodori, dei carciofi e delle angurie, lavorano da mattina a sera, sono sempre stranieri, guadagnano 1,40 euro a quintale». 

Ai cantastorie del passato citati da Muci si affiancano e s’intrecciano i grandi rappresentanti della canzone d’autore italiana. Ad esempio, in Moi ca nc’è lu sule, invito alla bellezza, alla speranza, all’accoglienza, a godere della “luce” quando c’è, per moltiplicarla quando ce ne sarà bisogno, chiuso dal suono della ciaramella irachena, il pensiero va a Franco Battiato.

«Sì, non ti nascondo che dietro ci sono riferimenti a cantautori che hanno segnato la storia della musica italiana. Battiato è uno dei miei cantanti preferiti. Qui è anche un omaggio non voluto. È il suo modo di cantare le parole semplici che hanno portato a questa magia: ascoltando i suoi brani e chiudendo gli occhi, riesci a vedere qualsiasi cosa anche se sono concetti complessi o testi di alta filosofia»

Il testo di Moi ca nc’è lu sule è scritto dal poeta Rocco Cataldi, al quale attingi anche per A Li Furisi e citi nel reggae di Sant’Asili, brano ispirato alla lotta contro i gasdotti nel Mediterraneo.

«Rocco Cataldi è un professore, un poeta, figlio di contadini, e lui è riuscito a fotografare momenti bellissimi e anche intensi della vita nei campi a cavallo fra gli anni Cinquanta e Sessanta. Prima la campagna del Salento, come raccontavano i nostri avi, era veramente un giardino, una sorta di Eden, alberi di ulivo, vigneti, tabacco, verdure e ortaggi di ogni tipo. Cataldi è riuscito, tramite i suoi versi, a tirare fuori questa bellezza che, ahimè, è andata perduta. A Li Furisi, – “furisi” nel Salento sono i contadini – è un omaggio che fa a questi lavoratori ed io, nel musicarla, sono entrato in un mood che può sembrare un blues e che può riportare alle registrazioni che faceva Alan Lomax fra i contadini nei campi di cotone e di mais».

La chiusura, Ulivi, è un canto di speranza per ritrovare la bellezza perduta e sfregiata dalla Xylella: “Anche adesso sono belli gli ulivi, di una bellezza divina, mai vista prima. Ed è come se ogni volta si dovesse morire per diventare tremendamente belli”. 

Storie, musiche che accomunano tutto il Sud d’Italia, come quelle legate alle barberie, sulle quali Dario Muci ha condotto una lunga ricerca. 

«Ho dedicato quindici anni della mia carriera alla ricerca sulla musica dei locali da barba, che so benissimo che in Sicilia è ancora coltivata mentre da noi no. Io sono discepolo di un barbiere violinista Luigi Stifani (considerato il “padre” delle pizziche tarantate, ndr). Poi ho pubblicato tre album e un documentario su questo studio. In tutto il Mediterraneo è diffusa questa tradizione, anche nel Nord d’Italia e in Sardegna. Il fenomeno da noi è rimasto per diverse motivazioni: i barbieri erano tanti, le persone che andavano a lavorare non avevano il rasoio Bic, andavano nella sala da barba. In un paesino ne esistevano anche dieci, e più il barbiere era bravo nell’affabulare, tanti più clienti aveva. Quindi, dove andavano tutti? Dove si faceva musica. Più suonavano bene, meglio ancora andavano bene gli affari. La musica della barberia è diversa da quella della tradizione. La seconda, con canti e riti, appartiene più a un mondo agro-pastorale, una vita scandita dai lavori della campagna, mentre i suoni della barberia sono urbani, che stanno in paese e, infatti, tutte le musiche venivano da valzer, polke, mazurke, musiche con codici e partiture scritte, anche se poi funzionava per tradizione orale».

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